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sabato 26 marzo 2016

Proviamo a non giudicare O'Shea prima del tempo

Proviamo a non giudicarlo prima che abbia fatto un po' di lavoro. Proviamo a non stroncarlo prima che abbia seminato, se non raccolto. Proviamo a essere un po' meno autolesionisti che in passato.
Il compito di O'Shea non l'ha ancora affrontato nessuno nella storia del rugby italiano: riformare l'organizzazione complessiva del sistema, coordinando tutte le componenti per ricavarne risultati di vertice (con la nazionale) e strutturali (l'intero movimento). Quindi diamogli tempo prima di incollargli addosso le solite pesanti etichette.
L'uomo è di valore, la squadra che lo coadiuverà pure. Le intenzioni sono giuste, gli obiettivi condivisibili, i metodi vedremo. Ci vorrà un periodo di adattamento: concediamoglielo.
Da sempre in Italia ci si divide in fautori della crescita dal basso e in sostenitori del potere trainante del vertice. I primi credono che le vittorie (rare) della nazionale siano superficiali e di corto respiro, e che solo una ristrutturazione capillare - che passi dai club - possa produrre risultati duraturi e solidi; i secondi pensano invece che la visibilità della nazionale abbiamo una forza "immaginifica" che nessun club e nessuna scuola di base possiede, e che la voglia di imitare sia essenziale nelle motivazioni di un futuro campione.
La mossa di Gavazzi - che sembra un pessimo comunicatore ma potrebbe rivelarsi un buon stratega - può riuscire nell'impresa di unificare le due correnti di pensiero: accentrare in un primo momento, nella fase della creazione della macchina organizzativa, per poter decentrare in un secondo momento, quando la macchina sarà oliata dai buoni risultati sportivi.
È un'impresa titanica, che conta su tanti sostenitori potenziali e che sicuramente avrà altrettanti nemici. Gli orticelli potrebbero essere spazzati via, così come i piccoli o grandi poteri locali. La sfida che O'Shea affronterà comprende anche questo gioco pericoloso: smontare i meccanismi egoistici e particolari senza sacrificare le tante competenze legate a questi meccanismi. Per dirla in un altro modo: dovrà evitare di gettare il bambino con l'acqua sporca.
Se ci riuscirà, trovando modo di valorizzare l'enorme serbatoio di passione e sapienza diffusa nel rugby italiano, avrà fatto ben di più che vincere un Sei Nazioni.

lunedì 21 marzo 2016

Sei Nazioni 2016, bilancio totalmente negativo?

Si legge dell'ultimo Sei Nazioni solo in termini catastrofici. Perfino incompetenti giornalisti e giornali, che normalmente riservano un trafiletto in ultima al rugby, si lanciano in inchieste e giudizi da fine del mondo.
Naturalmente non c'è da essere entusiasti: ultimi, battuti nei risultati e nel gioco da (quasi) tutti.
Ma...
Lasciamo da parte chi sbraita per ragioni politiche, i professionisti della guerriglia. Poi lasciamo da parte i giornalai che vivono di polemiche e poco altro. E lasciamo anche da parte i campanili, dai quali si suonano rintocchi a lutto anche quando si vince, figuriamoci se si perde. Infine, lasciamo da parte i giudizi pararazzisti degli opinionisti anglofrancesi, secondo i quali la presenza italiana nel Sei Nazioni è meno giustificata di quella rumena o georgiana (mah, li vorrei vedere...).
Concentriamoci sul quid.
Con la Francia abbiamo giocato alla pari tutta la partita e perso per un pelo (ingenuità nostra, errore dell'arbitro, piede perfetto del calciatore francese). Con l'Inghilterra abbiamo giocato alla pari 60 minuti, poi siamo crollati per ragioni nervose /fisiche. Idem con la Scozia, con l'aggravante che abbiamo cominciato in salita e non siamo riusciti a scuoterci (ma la Scozia di quest'anno è forte, ragazzi!). Il crollo vero è avvenuto con Irlanda e Galles, quando ormai il vento soffiava potente contro la nostra nazionale: infortuni, soprattutto, ma anche gufi neri appollaiati ovunque e autostima sotto i tacchi.
Siamo sicuri che sia stata la tragedia nazionale di cui tutti farneticano? Non è che rientra nel gioco delle cose che si facciano due o tre anni buoni e due o tre anni meno buoni? E siamo consapevoli che per la nostra nazionale due o tre anni buoni vogliono dire finire davanti alla Scozia e giocarsela con un paio di altre, non vincere il Sei Nazioni?
Come movimento ondeggiamo tra il quinto e il sesto posto in Europa, tra il decimo e il 15 nel mondo. E siccome nel rugby non si bluffa, lì stiamo!
Non criminalizziamo i ragazzi vestiti di azzurro: quest'anno la sfiga si è accanita, con gli infortuni (con il Galles avevamo fuori 15 giocatori potenzialmente titolari) e quant'altro.
Piuttosto, capiamoci meglio su stato delle cose, obiettivi, metodi  e tempi (e in questo la federazione potrebbe fare  un lavoro di comunicazione migliore): non si annullano gap pluridecennali in poco tempo, neanche iniettando valanghe di soldi nel movimento. Ci vuole tempo, progettazione e pazienza. Con la consapevolezza che ci vuole un'Italian way of rugby che ancora non è stata individuata: una strada che molto ha a che fare con lo sport, ma molto ha a che fare anche con la nostra mentalità e non può prescindere dalla nostra storia.